
Francisco de Goya – “La gallina cieca” (1789)
C’è qualcosa di fisico nella pittura a olio, qualcosa che ha a che fare con il corpo, con il gesto, con il tempo. L’olio non si improvvisa. Ti costringe a rallentare, a stratificare, a decidere. E mentre la pittura si asciuga – piano, lentissimamente – anche tu cambi insieme a lei.
Un’origine antica come la luce
La sua origine risale a molto prima di quanto si creda. Alcuni pigmenti mescolati a oli vegetali erano già in uso nel mondo antico, ma è tra i pittori fiamminghi del Quattrocento che questa tecnica prende davvero forma. Jan van Eyck, per esempio, è considerato uno dei suoi grandi padri: con l’olio, riuscì a ottenere effetti di trasparenza, profondità e lucentezza che fino ad allora erano inimmaginabili con la tempera.
E da lì fu un crescendo: l’olio divenne il mezzo prediletto dei grandi maestri. Leonardo da Vinci, Tiziano, Caravaggio... non erano solo pittori, erano architetti della luce, e l’olio era il loro materiale da costruzione. Perché se c’è una cosa che distingue questa tecnica dalle altre, è proprio la possibilità di lavorare a strati, velatura dopo velatura, senza fretta. Ogni strato racconta un’intenzione, ogni passaggio una profondità emotiva.
Come funziona la pittura a olio
Ma come funziona davvero la pittura a olio?
Tutto comincia dalla materia. Il colore a olio non si diluisce, si mescola. I pigmenti vengono uniti a un olio – di lino, di papavero, di noce – che fa da legante. E ogni tipo di olio ha la sua caratteristica: l’olio di lino asciuga più rapidamente e dà un tono caldo, quello di papavero è più chiaro, adatto ai toni freddi, quello di noce è delicato e stabile.
Il supporto classico è la tela, ma non è mai una tela grezza. Va trattata, preparata con una mano di gesso o colla di coniglio, per renderla meno assorbente e far sì che il colore si poggi sulla superficie senza sparire. Dopo la preparazione, molti artisti scelgono di stendere una base colorata – un imprimitura, spesso in toni neutri o caldi – che dà coerenza cromatica all’intera opera.
Si può iniziare con un disegno leggero, a carboncino o con un pennello fine, oppure si può entrare subito nel vivo, lasciandosi guidare dal colore. L’artista decide, di volta in volta, se stendere la pittura in modo sottile e trasparente, creando quelle che si chiamano velature, oppure se lavorare in spessore, con impasti materici e pieni, usando magari la spatola più che il pennello.
Le velature sono come veli di seta: lasciano intravedere ciò che c’è sotto, creando profondità e vibrazione. Servono pazienza e tempi lunghi, perché ogni strato deve asciugarsi prima del successivo. Ma il risultato è una luce interna, che sembra venire dal dipinto stesso.
Gli impasti, invece, sono gesti pieni, quasi scultorei. L’artista spinge il colore sulla tela, lo modella, lo lascia emergere. Qui non c’è trasparenza, ma energia. Van Gogh ne è un esempio potente: nei suoi cieli e nei suoi campi si sente il peso della mano, la forza della pennellata.
Esiste anche un altro approccio, quello più istintivo, detto alla prima: l’intero dipinto viene realizzato in una sola sessione, quando il colore è ancora fresco. È un metodo diretto, vibrante, che non prevede ripensamenti. Richiede coraggio e un’idea chiara fin dall’inizio.
Ma la vera regola aurea, quella che ogni pittore a olio impara presto, è: grasso su magro. Che non è un modo di dire, ma una verità tecnica. Gli strati successivi devono contenere più olio rispetto a quelli sotto, altrimenti
si rischia che la pittura si screpoli. È una questione di essiccazione: gli strati più oleosi si asciugano più lentamente, quindi devono restare in superficie.
E poi ci sono gli strumenti, che diventano estensioni della mano: pennelli di setola dura per gli impasti, pennelli morbidi per le sfumature. Spatole, stracci, dita. Bottiglie d’olio di lino, boccette di essenza di trementina, vasetti per la vernice finale. Ogni oggetto sul tavolo ha una funzione precisa, ogni odore ti racconta a che punto sei.
Nel tempo, la pittura a olio è stata declinata in mille linguaggi diversi. Rembrandt modellava la luce nei suoi ritratti come se fosse fatta di carne. Vermeer ne faceva poesia domestica, nel silenzio di una stanza. Goya trasformava l’olio in denuncia sociale, Frida Kahlo in autoritratto dell’anima.
Monet scioglieva il paesaggio nel colore, Lucian Freud scrutava la pelle come fosse paesaggio.
E ognuno, con lo stesso mezzo, diceva qualcosa di profondamente diverso.
E alla fine...
Dipingere a olio è un atto lento e meditativo. È un dialogo con la materia. È qualcosa che si costruisce nel tempo e si rivela a poco a poco, come le cose che contano davvero.
Se sei arrivatə fino qui, grazie.
Spero che queste parole ti abbiano aperto una finestra su un mondo denso, vivo, fatto di gesti antichi e bellezza concreta. Se vuoi scoprire come porto io questa tecnica dentro le mie creazioni, ti invito a visitare i miei lavori.
Ti aspetto. Alla prossima pennellata.
Fei Adler

Diego Velázquez – “Il Principe Baltasar Carlos con un nano” (1631 circa)

Leonardo da Vinci – “Dama con l’ermellino” (1488–1490)

Caravaggio – “Le sette opere di misericordia” (1607)

Johannes Vermeer – “Il bicchiere di vino” (1658–1660)
Aggiungi commento
Commenti